….Cattedrali industriali colme delle tracce del lavoro di migliaia di operai, tante vite comuni che sono passate da lì. Il mio tentativo, è sempre di raccontare quanto gli edifici industriali siano depositi di memoria.
Per tornare alle fabbriche quando dicevo che si percepisce l’attaccamento al posto di lavoro, penso sempre a “La Chiave a Stella” di Primo Levi, queste fabbriche immense, erano affollate di maestranze straordinarie, che non solo sapevano “tagliare i baffi alle mosche”, come scriveva Levi, ma nutrivano affetto e rispetto per quel luogo che era la loro vita.
Come si prepara per una campagna fotografica?
Prima di scattare mi preparo, cerco di leggere il più possibile, di vedere il più possibile dei luoghi in cui andrò, riesco a raccogliere meglio i segnali, i dettagli che senza informazioni sono indecifrabili.
La fotografia registra cose impensate, che puoi raccontare se sei disposto a lasciarla parlare ed io sono una persona che si incanta dei luoghi.
Che cosa vuol dire incantamento?
Vuol dire che trovo questi luoghi sempre fascinosi, magnifici, letterari. Pieni di una loro luce perfetta, che non vuol dire necessariamente una bella luce fotografica, ma la luce propria di quel luogo.
E’ la mente a fotografare, non l’occhio neppure la macchina fotografica, la macchina raccoglie elementi che puoi leggere dopo, in tanti modi, è un procedimento di raccolta dati che il fotografo poi decifra, decodifica, manipola e declina in vari modi.
Niente è meno obiettivo della fotografia.
Da un’intervista di Alberto Papuzzi per “La Borsa Valori di Torino” - edizioni Allemandi 2011
David Bowes è un personaggio dai contorni letterari.
L’artista ha vissuto fra il Massachussets, New York e le capitali europee.
A Manhattan, nel milieu culturale dell’East Village, frequentava persone come Keith Haring, Andy Wharol, Basquiat, Nan Goldin, Lou Reed e Jim Jarmusch.
Non è facile apprezzare la pittura di David Bowes, almeno ad un primo sguardo: l’effetto è spiazzante, perfino respingente. Ci trovi dentro l’anacronismo, il naif, il surrealismo, il pop, l’Arcadia, la Transavanguardia, la Commedia dell’Arte, Bosch, Goya, l’India, l’Antica Grecia: citazioni come se piovesse, colori sgargianti, intrecci di stili, ambientazioni agresti, simbolismi, orientalismi, classicismi, decorativismi.
Se non fosse profondamente poetica, emotiva ed intellettuale la pittura di Bowes potrebbe sembrare un delirio antistorico annegato nel kitsch.
Ma la scommessa di questo eccentrico pittore bostoniano sta tutta nella costruzione di un passato eterno, srotolato in ogni direzione: un tempo impuro poiché contaminato, ma profondamente genuino in quanto popolare. L’immediatezza del bello decorativo e la piacevolezza del dettaglio pittoresco incontrano la forza dell’archetipo e del mito, le avventure di cantastorie, il teatro dei pupi, le cortigiane giapponesi, le vacche sacre, Arlecchino, i santi, i guerrieri e i pastorelli in amore. Si moltiplicano le figure, contraddicendosi dentro teatrini allegri e indecifrabili.
David Bowes è un anarchico. Annullate parecchie gerarchie di simboli e impalcature ermeneutiche, si diverte a dipingere il caos calmo in cui la sua immaginazione affonda luoghi, ricordi, cose, volti, idiomi.
Così con somma delicatezza, pratica una pittura semplice, illustrativa, rassicurante come un proverbio o un luogo comune, ancorché indisciplinata.
Una pittura intima soprattutto: come quella affettuosamente condivisa con una banda di giovani amici palermitani.
Attivo dalla fine degli anni ‘80 in quella generazione di artisti nati dopo il 1960 che si impone sulla scena italiana dopo le esperienze dell’Arte Povera e della Transavanguardia. Il lavoro si colloca fin dagli esordi in quella ‘Scena Emergente’ documentata dal Museo Pecci di Prato nel 1990, nella quale una nuova generazione nata al di fuori delle ideologie che hanno caratterizzato gli anni passati, attraversa i medium più disparati, dall’installazione alla pittura, dalla fotografia al video. In quegli anni espone in numerose gallerie italiane: Studio Guenzani e Studio Marconi a Milano, Lia Rumma a Napoli, Galleria Emilio Mazzoli a Modena, GianEnzo Sperone a Roma. È nel 1990 al Museo Pecci di Prato, al Pac di Milano e alla Galleria d’arte Moderna di Bologna, musei presso i quali vengono acquisite le sue opere.
Negli anni successivi alcune sue opere vengono acquisite dai seguenti musei: a Parigi (Fondation Cartier) , Berlino, Martin Gropius Bau (Metropolis) Amsterdam (De Appel) Vienna (Palais Lichtenstein, Fondazione Ludwig) e a New York (Sperone-Westwater, Bronx Musem), a Phoenix, Nizza (Musee d’Art Contemporaine) Roma Galleria Nazionale d’arte Moderna, (Quadriennale 1996 e 2005 , Galleria Nazionale d’Arte Moderna), Milano (PAC, Triennale, Collezione Palazzo Reale), e nei musei di Graz, Sarajevo, Tel Aviv. Pubblica numerosi articoli e saggi d’arte contemporanea. (Riscoprire il Silenzio, Baldini Castoldi Dalai Ed.2004).
Nel Biennio 2006-07 è docente presso le Accademie di Bergamo e Brescia.
Dal 2010 collabora con l’Accademia di Brera a Milano dove svolge dei seminari sull’arte contemporanea.
Nell’ultimo decennio il suo lavoro si è concentrato su una pittura astratta, nella quale l’aspetto performativo riveste un ruolo centrale. Il colore come veicolo emozionale, la pittura praticata come partitura musicale, il tessuto temporale come elemento portante della creazione artistica, sono elementi che negli ultimi lavori newyorkesi si dispiegano in una rilettura astratta del paesaggio urbano e naturale.
Una sua opera, The Golden Age, realizzata a NY nel 2008, è stata acquisita recentemente dal Museo d’Arte Moderna di Bologna (MaMBo).
Dalla metà degli anni Novanta, Pierluigi Pusole [Torino,1963] è impegnato nel tentativo di rifondare il mondo attraverso la pittura. All’artista non interessa dipingere un simulacro della realtà, egli desidera semmai crearsi il proprio vivaio di forme.
Come in una gaia scienza, la biosfera di Pusole si sublima in un Ego-sistema pittorico: non il migliore dei mondi possibili ma la possibilità di un mondo migliore.
Pusole insegue la crisi/catastrofe del proprio sistema formale-informativo per riuscire a porsi in discussione e per verificare la necessità di altri, inediti, “orizzonti”.
L’artista non ammette mai una cesura tra l’opera d’arte e la natura, aspira bensì a un’esatta equivalenza tra i ruoli dell’artista e del demiurgo: dipinge cioè la ciclicità di un’esistenza che progredisce per accumulazioni o per drastiche interruzioni.
La pluralità dell’immagine nasce quindi da una totalità infinitamente divisibile, il cui fondamento è la “biodiversità” della pittura, la quale non è rappresentazione del mondo ma sua artefice. Piuttosto che assoggettarsi alla realtà, egli ha preteso di asservire a sé la rappresentazione.
Pusole è consapevole del fatto che la pittura è in grado di crearsi da sé la propria extraterritorialità; dovendo fare i conti con il tentativo di validare o confutare il mondo da lui stesso creato, l’artista ha deciso di esperirlo in prima persona, in quanto l’esperienza è Maestra di vita.
Attraverso un processo micotico, la materia - intesa come “vivente” ma soprattutto come “pittorica” - inizia a organizzarsi in una cosmogonia personale. Lavorando di prima intenzione l’artista permette alle opere di progredire verso una vastità che può risultare disgregante e persino involutiva. Cionondimeno, egli ha il coraggio di ricominciare daccapo, ancora e ancora, riconoscendo la propria teoria solo ed esclusivamente nell’empirismo.
In questa nuova fase della sua ricerca, l’artista passa da creatore ad architetto di paesaggi; è come se Pusole cercasse di arginare il campo d’azione dei suoi
macro-sistemi, quasi a volerne ridurre le variabili e limitarne l’ipertrofia labirintica.
Le opere ci appaiono come una sequenza di ritagli su carta, appunti, grafici, particolari di paesaggi che tendono a stratificarsi gli uni sugli altri. sono “progetti” che prendono forma su un tavolo di lavoro in cui l’artista continua a sperimentare il segreto della vita [e] della pittura.
A dispetto di una più semplice Ars topiaria, Pierluigi Pusole cerca di ottenere un paesaggio antropizzato, caratterizzato da una fitta vegetazione e da ambienti lacustri che sono dominati da intensi cromatismi. In uno spazio omnicomprensivo e in un tempo omogeneo, l’opera entra «in competizione con il sistema formale più complicato e aperto», quello di Madre Natura «che rielabora sempre nuove informazioni».
Lo studio C&C viene fondato a Torino da Paolo Albertelli e Mariagrazia Abbaldo.
Entrambi laureati in architettura presso il Politecnico di Torino, si formano in studi di architettura, restauro e scultura. Cominciano a collaborare nel 1997: da subito la ricerca compositiva si realizza sia nel campo dell’architettura sia della scultura.
I lavori di architettura ricevono due importanti riconoscimenti: il premio “Architetture rivelate” nel 2002 per l’ampliamento in acciaio e vetro della loro residenza a Torino; il premio come secondo classificato del concorso per Villa della Regina a Torino nel 2010.
Sono lavori caratterizzati da un uso insolito dei materiali e da composizioni formali originali; con il tentativo di realizzare architetture scultoree che attenuino la sensazione di dover vivere all’interno di contenitori spesso standardizzati.
La particolare attenzione al rapporto fra architettura e acqua ha portato alla realizzazione di diverse fontane pubbliche e private.
Nel 2009 nasce il progetto PROFILI, sculture dedicate al tema del paesaggio e all’indagine del rapporto fra terra e cielo che porta alla collaborazione con fotografi di fama internazionale.
Lo sviluppo del progetto Profili, tuttora in corso, è caratterizzato da una costante ricerca sull’espressività del segno inteso come rapporto fra disegno e utilizzo dei materiali tramite le tecniche del taglio laser, della fusione con metalli diversi e con lo studio delle patine di ossidazione.
Grazie alla collaborazione con realtà artigiane di eccellenza dell’hinterland torinese, i lavori di scultura hanno raggiunto riconoscimento internazionale e sono stati ospitati da mostre e musei in Italia, Francia e Svizzera.
Daniele Galliano si accosta ai momenti di aggregazione tra le persone e ai riti collettivi, qualunque sia la loro natura, con un atteggiamento da antropologo. Li osserva per capire cosa si nasconde dietro a quei fenomeni.
Con analogo distacco osserva i comportamenti individuali nello spazio intimo di un appartamento o nei luoghi in cui le persone si incontrano abitualmente.
L’interesse per i riti collettivi e per l’interiorità individuale, in cui egli riesce a cogliere la luminosa bellezza di ciascuno, lo ha portato a interessarsi alla figura di Cristo e al modo in cui è stato rappresentato nell’arte del passato.
Il ciclo di dipinti che hanno come soggetto la deposizione di Cristo si muove su un doppio binario: da una parte c’è l’individuo che cerca conferma delle proprie convinzioni partecipando ad un rito collettivo, dall’altra c’è l’individuo solo con se stesso.
Sullo sfondo di questi dipinti un reticolato formato da tasselli, realizzato con diverse tonalità di grigio, contiene in ogni frammento un istante di vita vissuta, sempre sfumato ed evanescente, al limite della percezione visiva.
In uno dei suoi dipinti più famosi Galliano ha ritratto sè stesso al posto di Cristo per evidenziare il senso di solitudine e il carico di sofferenza che accompagna la vita di ogni individuo.
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